Ci vuole un villaggio per guarire un bambino

Par Avventista Magazine

Mia nonna era la mia persona preferita al mondo. Fin da quando avevo tre anni, la mamma mi accompagnava in chiesa, mi aiutava a mettere lo zainetto e io sgambettavo, andando incontro alla nonna. Durante il culto, ci coccolavamo ascoltando i vari canti. Lei era una cantante straordinaria, io ero stonata. Mi sussurrava: “Hai una voce straordinaria… ma non arrivi ancora a queste note… ce la faremo”. Questo è stato il mio sabato, ogni settimana, finché a 18 anni non mi sono trasferita all’università. Mi sono sempre sentita molto amata da lei, ma era un’eccezione.

 

Crescere

Io e la mia famiglia vivevamo in una fattoria in una piccola città di campagna in Australia. Quando ero piccola, i miei genitori e mio nonno lasciarono la chiesa, dopo esserne stati molto coinvolti. Quando la mamma se ne andò, iniziò un lungo periodo di ribellione, come se segretamente avesse sempre voluto vivere un’altra vita. Sono cresciuta sentendola dire cose come che il suo più grande rimpianto nella vita era di essere arrivata vergine al matrimonio.

La maggior parte delle sere era fuori a bere. Papà mi portava al pub in pigiama per cercare di convincerla a tornare a casa. Ci furono alcune notti in cui dormimmo in macchina perché ci aveva chiuso fuori casa. Ci svegliavamo alle cinque del mattino e lei arrivava dal vialetto in taxi, solo per reagire alle nostre facce scontrose dicendo: “Non ho intenzione di affrontare la cosa adesso”. Ho sempre provato quello che definirei un “malessere” in quella casa. Non mi sembrava un ambiente accogliente, non come dovrebbe essere la propria casa.

 

Un cambiamento in famiglia

Quando ho compiuto 12 anni, ho scoperto che papà non era il mio vero padre. Non avrebbe mai potuto avere figli, anche se non li desiderava particolarmente. Così la mamma andò a cercare un donatore, anche se lui le aveva detto di non farlo. Come se non bastasse, i miei genitori me l’avevano detto solo perché stavano divorziando e avevano pensato che fosse il momento giusto per vuotare il sacco. Papà pensò che, dato che tecnicamente non ero sua figlia, aveva senso che andassi a vivere con la mamma in città.

Per un po’ lo vidi un weekend sì e uno no. Ma alcuni giorni mi chiamava e mi diceva: “Non puoi venire”; che alla fine si trasformò in “Non puoi più venire”. Di tanto in tanto uscivamo ancora a cena, il che a volte ci portava a litigare e qualche volta lui diceva: “Non sei nemmeno mia figlia”. Credo che ora si sia pentito di avermelo mai detto.

 

La chiesa vicino casa

La nostra casa era di fronte a una chiesa avventista, il che significa che potevo andarci a piedi ogni sabato. Ripensandoci, la chiesa era un luogo sicuro per me. Era una chiesa piccola, con circa 50 membri, ma mi piaceva molto. Nessuno gridava o faceva cose folli e le persone si prendevano cura di me.

Anche se la chiesa mi ha fatto del bene, casa mia ha avuto un’influenza diversa sulla mia vita, che si è manifestata a scuola. Parlavo in modo molto sfacciato con i miei insegnanti e facevo di tutto per ottenere l’approvazione degli altri, accumulando diverse sospensioni. Avevo molti amici, ma mi sentivo sempre vuota, sola e insicura. Avevo i capelli crespi e non ero né bella né magra come le altre ragazze.

 

Non voluta, non amata

In questo periodo il mio rapporto con la mamma toccò il minimo storico. Continuava a bere molto e faceva uso di metanfetamine, il che la rendeva irascibile, emotivamente instabile e fisicamente violenta. Una sera mio fratello dovette staccarla da me e tenerla ferma. Andai in camera mia e la sentii piangere a dirotto con la sua amica al telefono: “Ho preso tutte queste pillole… Non voglio più vivere”.

Quella notte finì in ospedale. La mattina dopo arrivò a casa mentre stavo uscendo per prendere lo scuolabus. Ci fermammo sulla porta e lei mi fissò con aria assente. Aveva ancora una macchia rossa intorno alle labbra per il vino che aveva bevuto la sera prima. Senza dire una parola, la superai e salii sull’autobus. Per tutto il giorno ricordo di aver pensato: “Mia madre mi odia”. Avevo sempre avuto la sensazione di non piacerle, ma quel giorno ne ero certa. Un’altra sera mi disse, a bruciapelo: “Ti odio… vorrei non averti mai avuta”. Ero giovane, quindi non ho mai pensato che questo potesse provenire da una sua lotta personale riguardante la sua salute mentale o il suo abuso di droghe. Pensavo solo che dovessi essere davvero poco amabile.

 

In due mondi diversi

Durante l’adolescenza ho iniziato a fumare e a bere. Organizzavo feste per i miei amici perché mia mamma mi incoraggiava. Un sabato sono uscita presto dalla chiesa per organizzare una festa. All’epoca cercavo di non bere, ma in casa c’erano 150 minorenni che bevevano e si facevano gli shottini con mia madre. La polizia arrivò e mise fine alla festa. Quando entrarono in casa, mia mamma era svenuta. Uno dei poliziotti mi guardò e disse: “Ragazza, cosa stai facendo?”. Stavo vivendo una doppia vita e non ero un grande esempio di una persona cristiana. Ma stavo facendo del mio meglio.

Ai miei amici piaceva la mamma perché offriva loro da bere, insegnava loro a rollare gli spinelli e li accoglieva a casa quando saltavano la scuola. Per gli altri era l’anima della festa, ma quando eravamo solo noi a casa, il vuoto e la rabbia venivano fuori. Così, quando all’ultimo anno di scuola mi fece accomodare e mi disse che le avevano offerto un lavoro a tre ore di distanza, insistetti perché partisse. Ci accordammo per farmi vivere con i miei zii, cosa che mi entusiasmava perché ero molto legata ai miei cugini e li vedevo in chiesa. Io e mia cugina condividevamo una stanza minuscola ed era un vero disastro. Ma ero felicissima. La loro famiglia ha avuto una grande influenza su di me.

Non ho mai più vissuto con mia mamma. Anche se ho insistito perché partisse, una parte di me voleva che lottasse per restare. Non avendo avuto genitori affettuosi da piccola, cercavo costantemente conferme dalle persone ed ero ossessionata dal fatto di piacere ai genitori degli altri. Ecco perché sono sempre stata attratta dalla chiesa: per l’idea che qualcuno mi amasse. Non solo qualcuno, ma per l’idea che il Dio dell’universo potesse amarmi.

 

Piccole azioni, grandi conseguenze

A scuola non parlavo mai della mia vita familiare; cercavo di non far trasparire le mie emozioni. Ma la mattina della mia maturità non potei fare a meno di piangere perché nessuno dei miei genitori era venuto a sentirmi. Mentre tornavo a casa, ricevetti una telefonata da una delle mie insegnanti che mi chiedeva di incontrarla in un bar. Sapeva che la mia vita era difficile e spesso mi teneva d’occhio. Quel giorno mi offrì il pranzo e mi diede un piccolo regalo e un biglietto che conservo ancora oggi. Ricordo di essermi sentita così a disagio, ma allo stesso tempo così amata.

Dopo la scuola, fui accettata all’università. Mamma promise di darmi i soldi per il dormitorio, ma non lo fece. Ero spaventata. Come avrei potuto permettermelo? Giorni dopo, un fratello di chiesa bussò alla mia porta. Mi porse un’agenda di plastica, di quelle che si ricevono gratis sui giornali, e mi disse: “Mia moglie e io abbiamo preso questo per te. Pensavamo che potesse servirti per l’università”. Andai in camera mia, aprì l’agenda e ne uscirono dei soldi, l’esatto importo che mi sarebbe servito per il primo semestre. Gridai per l’emozione, poi mi sentii così in imbarazzo che andai a casa loro, cercando di restituire la somma ricevuta. Mi dissero: “Se ce li restituisci, li mettiamo direttamente nel cestino. O li prendi e li usi o andranno sprecati”. Ovviamente alla fine accettai.

L’università è stata per me un momento di trasformazione. Mi sono fatta molti amici e ho iniziato a capire che quello che mi era successo crescendo non era normale. Ho visto un consulente e ho intrapreso un viaggio psicologico, per arrivare a una guarigione completa. La cosa più difficile che ho dovuto fare è stata pregare per la mamma. Pregavo che Dio mi aiutasse a perdonarla, che mi desse la forza di lasciar andare le cose e che provassi un amore autentico verso di lei. Quando le dissi che l’avevo perdonata, per un po’ le cose sono migliorate. Ma poi litigavamo di brutto, perché la mamma era sempre la mamma. Il perdono, ho imparato, è un percorso continuo.

 

Amata da molti

Crescendo, ho sempre invidiato le famiglie altrui. Ma quando mi guardo indietro, mi sento così grata per tutte le persone che Dio ha messo nella mia vita per prendersi cura di me: vicini di casa, bisnonni, amici all’università, insegnanti, zii e zie, e soprattutto mia nonna.

Quando mia nonna era più anziana, le fu diagnosticato l’Alzheimer. Un giorno andai a trovarla e con gli occhi pieni di lacrime mi disse: “Voglio solo dirti che Gesù ti ha portato nella mia vita perché sei il motivo per cui sono rimasta in chiesa”. Non potevo crederci. “Cosa vuoi dire? Sei tu che mi hai tenuta in chiesa”, risposi. Mi disse che si vergognava di presentarsi come moglie del pastore senza il pastore, dopo che questi aveva lasciato la chiesa, e quindi accompagnava me. A volte le cose erano difficili e lei era tentata di smettere di andare, ma rimaneva perché vedeva quanto mi piaceva. Quel giorno abbiamo pianto insieme. Non ci eravamo rese conto di quanto entrambe avessimo significato l’una per l’altra in periodi così difficili della nostra vita. Mi ha dimostrato un amore incondizionato e io ho imparato molto su Dio da lei.

 

Un viaggio lungo una vita

Ho fatto molta strada e sono orgogliosa di dove sono oggi. Tuttavia, lotto ancora con i dubbi e le insicurezze che ho adottato da bambina, che si insinuano qua e là. Sì, sono più sicura di me, ma ci sono momenti in cui mi sento impacciata, sola e, a volte, non amata… proprio come quando ero una ragazzina. Ma mi ricordo di continuare ad andare avanti. E, soprattutto, mi ricordo che sono una figlia di Dio, una figlia del Re dei re. E se credo che lui sia straordinario, allora anche le cose che fa sono straordinarie, no?

 

 

* In questa storia non si fanno nomi, per rispetto a coloro che sono ancora in vita.

 

 

Di Zanita Fletcher, assistente alla redazione dell’edizione australiana/nuova zelandese di Signs of the Times.

Fonte: https://signsmag.com/2025/03/it-takes-a-village-to-heal-a-child/

Traduzione: Tiziana Calà

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